giovedì 1 dicembre 2011

UNO TSUNAMI CHE SPAZZI VIA GLI STECCATI

di Sergio Fenizia
Pubblicato sul mensile Fogli, n. 368, aprile 2011, pp. 10-11.

Tra insegnanti italiani sotto attacco, da una parte, e samurai giapponesi feriti (ma non vinti), dall’altra, in queste settimane nessuno ha però dimenticato l’esempio di Yara e della sua famiglia. Come ha scritto Antonio Socci, questa ragazza non è la protagonista di una storia dell’orrore, perché sono i suoi assassini che sprofondano nell’orrore, «lei invece è la protagonista eroica di una luminosa storia di dignità».
Oltre alla vicenda di Yara, comunque, anche il sisma e lo tsunami che hanno sconvolto una delle massime potenze industriali, hanno consentito di riscoprire la scuola come luogo in cui parlare della vita e della morte; luogo in cui si educa anche ad affrontare l’una e l’altra nel modo giusto. 


Dove si aiutano i ragazzi a smascherare atteggiamenti pseudoscientifici che alimentano un falso senso di sicurezza basato sulla pretesa che la scienza possa consentire di dominare la Terra e che il progresso tecnologico possa da solo garantire la felicità.

In molte aule si è commentata la capacità dei giapponesi di progettare costruzioni antisismiche che qui ci sogniamo, di maturare in lunghi anni di esercizio una disposizione a gestire con ordine ammirevole le più grandi calamità.
 
In altre aule, invece, ci si è soffermati di più sull’opportunità di condividere il grido di dolore e di ribellione di popoli geograficamente più vicini a noi, che ancora non possono sperimentare le gioie (e i dolori) della democrazia.
In questi e altri casi, ogni insegnante che abbia guidato gli alunni in tali confronti avrà offerto i mezzi per individuare non solo ragioni e cause di quanto avviene nel mondo, ma soprattutto un senso, perché la vita per essere vissuta in modo umano ne ha bisogno. Infatti una vita senza senso è incomprensibile. Quando sotto i piedi tremano la terra o il mare o l’ordine sociale (e non si sa che cosa sia più grave o doloroso), è ancora più urgente che attraverso l’educazione la gioventù possa acquisire una visione del mondo e della persona umana nella loro totalità, come condizione per poter dare il giusto peso alle cose.
Con gli alunni più piccoli, molti insegnanti hanno seguito strategie che, senza negare la realtà dei fatti, tendevano però a rassicurare i bambini. Molti hanno trovato nella preghiera in comune un modo concreto per esprimere la propria solidarietà, e a questo altri hanno aggiunto il suggerimento di inviare lettere ai propri coetanei attraverso l’ambasciata del Giappone a Roma.
Ma veniamo adesso alla questione degli insegnanti sotto (presunto) attacco (da parte del premier). Le prime battute del discorso non erano facilmente censurabili: «Libertà vuol dire avere la possibilità di educare i propri figli liberamente»: un’affermazione che molti potrebbero sottoscrivere.
«Liberamente vuol dire non essere costretti a mandarli in una scuola di Stato»: anche su questo, in linea di massima, tutti potrebbero concordare, infatti è difficile negare che «essere costretti» sia incompatibile con l’esercizio della libertà. Ma poi è arrivata la staffilata incriminata: «Dove [nella scuola di Stato] ci sono degli insegnanti che vogliono inculcare princìpi che sono il contrario di quelli dei genitori». Apriti cielo! Che nella scuola (statale e non statale) ci siano alcuni insegnanti poco competenti e per giunta poco rispettosi delle prerogative delle famiglie, questo lo sanno tutti, e infatti non si fa altro che discuterne e cercare soluzioni per migliorare la situazione. Ma che un’affermazione del genere la faccia il capo del Governo, questo ha scandalizzato molti. Molti che però hanno letto in modo frettoloso le sue parole, se è vero che «degli insegnanti», in quella frase, può ben significare «alcuni insegnanti», e di sicuro non significa «gli insegnanti».
Il vero nocciolo della questione, invece, è stato sottolineato da Fabrizio Foschi, Presidente dell’associazione Diesse (Didattica e Innovazione Scolastica).
Dopo avere evidenziato che le parole contro [alcuni de]gli insegnanti della scuola pubblica sembrano ingiuste e improduttive, perché generiche e quindi lesive della posizione di tanti docenti che, spesso a prezzo di molti sacrifici personali e negli spazi talvolta esigui offerti dalla normativa, esprimono una soggettività capace di incontrare i giovani, di introdurli nella realtà, di orientarli al lavoro, Foschi afferma che «se si vuole che la scuola pubblica torni a essere un àmbito di istruzione e formazione semmai è decisivo sostenere gli insegnanti attraverso l’attuazione del percorso di formazione iniziale e la promozione di una carriera del docente degna di questo nome. Se poi si vuole favorire la scuola non statale (che non è solo privata ma anch’essa pubblica) si tratta semplicemente di realizzare una piena parità scolastica: un vero sistema integrato permetterebbe di rispondere pienamente alla domanda educativa che proviene dalle famiglie e dalle giovani generazioni».
In chiusura, formuliamo l’auspicio che gli imminenti «Stati generali della conoscenza», promossi da numerose organizzazioni sociali (Roma, 17-18 maggio 2011), possano essere l’inizio di uno tsunami che spazzi via pregiudizi e incomprensioni, chiarendo che la vera sfida per il sistema scolastico italiano passa necessariamente attraverso il superamento degli obsoleti steccati che talvolta vengono strumentalmente sollevati tra scuola pubblica statale e scuola pubblica non statale (paritaria). Infatti entrambe puntano allo stesso obiettivo: assicurare a ogni studente il maggiore livello di istruzione-educazione possibile per ciascuno.

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