venerdì 24 febbraio 2012

QUEL CHE AVREMO SEMINATO

di Sergio Fenizia
Pubblicato sul mensile Fogli, n. 376, dicembre 2011, pp. 16-17

«Facevo la terza media. La scuola era per me una cosa seria, anche se non ero una cima. Avevo difficoltà a capire le spiegazioni. Ero più lento di altri. Ma non mi sentivo speciale. In fondo, avevo molti interessi, e il fatto che questi non coincidessero con quelli scolastici, non dipendeva da me. Le lezioni erano cominciate da varie settimane, forse qualche mese. Un giorno mia madre era andata al colloquio con la professoressa, ma era tornata a casa piangendo. 

«Ero sorpreso, perché non era mai successo. Mi avvicinai e le chiesi cosa fosse avvenuto. All’inizio non volle dirmi nulla, ma poi tra le lacrime mi disse che, secondo la mia professoressa, non ero tagliato per la scuola. Che dopo la licenza media non sarei riuscito a concludere molto. Che non sarei stato in grado di affrontare la scuola superiore. E che l’unica speranza per me era di iniziare quanto prima un percorso di avviamento a un lavoro manuale non troppo complesso. 

«Sul momento non capii molto di ciò che era accaduto. Non detti peso alla cosa.

«I miei genitori ne parlarono tra loro e decisero di darmi fiducia. Con molta fatica, ma con le mie forze, riuscii a prendere un diploma. Poi iniziai a fare la gavetta. Era faticoso. Presto, però, mi resi conto di possedere qualità che a scuola non erano apprezzate, ma che nel mondo del lavoro mi consentivano di fare strada. Ero leale, onesto, puntuale. Portavo a termine le consegne. I miei colleghi e i miei superiori si fidavano di me. Ero tra quelli che sapevano resistere ai tentativi di corruzione, che aumentavano con il crescere delle responsabilità che ci venivano affidate. Col tempo ho fatto carriera.

«Recentemente sono stato a trovare la mia vecchia professoressa. Non la vedevo da molti anni. È stata contenta della visita. Le ho raccontato che lavoravo in una fabbrica. Si è interessata. Voleva sapere che tipo di operaio fossi diventato. Ma quando le ho detto che di quella fabbrica ero il direttore, è rimasta di sasso. Sono seguiti alcuni minuti di silenzio. La sua mente deve essere volata a quel giorno in cui, senza volerlo, fece piangere mia madre. Adesso era lì, davanti a me, sbiancata e a bocca aperta.

«A suo modo mi voleva bene. Ma quando ero ragazzino non mi aveva capito in profondità e, soprattutto, aveva rischiato di precludermi un ciclo di studi che invece si era rivelato importante».

Fin qui, in sintesi, il racconto del mio interlocutore. La turbolenza che aveva movimentato il volo aveva anche creato un’atmosfera speciale, che spingeva a sentirsi quasi fratelli anche di persone che non si conoscono.

Forse per questo, una volta atterrati e in attesa del volo successivo, quel giovane dall’aria imprenditoriale aveva cominciato a raccontarmi della sua vita. E io a lui della mia.

Mi faceva simpatia. Soprattutto perché, saputo che ero insegnante, mi aveva risparmiato le solite considerazioni retoriche sull’importanza del mio lavoro, sulla necessità di docenti preparati ecc. Parole che risultano vuote se non sono seguite da fatti concludenti. Ma lui mi aveva fatto partecipe di un’esperienza importante e pertinente.

Forse la sua professoressa aveva sbagliato. Ma aveva agito per il suo bene. Era stata onesta. Altri, invece, preferiscono tacere per non complicarsi la vita. Lei aveva scelto di dire ciò che in coscienza riteneva fosse il bene del ragazzo, assumendosi la propria responsabilità di insegnante-orientatore. Inoltre, il rigore morale, la puntualità, il senso di responsabilità, tanto apprezzati sul posto di lavoro, non erano stati trasmessi al ragazzo anche da lei, attraverso la sua vita?

L’insegnamento, infatti, è anche «comunicazione di un modo di guardare la realtà che implica la persona stessa dell’insegnante», non solo le sue conoscenze e le sue competenze. Una questione di tale importanza che è stata scelta come tema della «Convention Scuola di Diesse» (Didattica e Innovazione Scolastica) svoltasi a Bologna nel mese di ottobre, con 800 presenze.

Nel comunicato finale è stato sottolineato che «l’istruzione deve diventare una nuova priorità per il Paese sia in termini di investimento sulle strutture, sia in termini di valorizzazione della funzione docente, la cui fisionomia professionale deve essere liberalizzata nelle modalità del suo impiego e del reclutamento».

I risvolti di politica scolastica che queste considerazioni implicano sfuggivano al mio interlocutore, ma la sua esperienza di studente, prima, e di operaio e direttore di fabbrica, dopo, gli consentivano di cogliere bene la valenza strategica che gli investimenti seri nella formazione (educazione) della gioventù hanno per il bene della società.

La vita di un uomo può cambiare traiettoria se incontra i maestri giusti, gli insegnanti giusti. In ogni caso, ne avrà sempre una, che dipenderà, nel bene o nel male, dai modelli che avranno fatto presa su di lui.

Sarebbe ingenuo ritenere che un giorno non si dovrà rendere conto della serietà con la quale ciascuno avrà affrontato le scelte scolastiche in relazione al futuro dei propri figli o, per i politici, in relazione alla reale libertà del sistema educativo.

Qualcuno si accontenterà di potere raccomandare i propri pupilli a un preside compiacente che lo inserisca in una buona classe del proprio istituto. La maggioranza, invece, a beneficio della collettività e quindi anche delle proprie famiglie, vorrà contribuire a rendere effettivo il diritto di ciascuno (anche di chi è privo di risorse economiche) a poter scegliere l’educazione dei propri figli in libertà.

Il rischio che corrono i primi è che rinunciando a difendere la dignità (e il conseguente diritto) degli altri perderanno la propria. La certezza per tutti è che raccoglieremo nella società ciò che avremo seminato: individualismo gretto e sterile o solidarietà gioiosa e feconda.

4 commenti:

  1. Maria Rita Tarantino18 mar 2012, 15:46:00

    Però è vero pure che anche i docenti sbagliano! Lo sono anch'io, quindi mi assumo le responsabilità di ciò che dico.
    A volte c'è onestà e onestà, e questa storia (come tante di mia conoscenza) lo dimostra. Il nostro compito è quello pure di guardare 'oltre' e vedere potenzialità in uno studente che non sono 'scolasticamente' manifeste, risorse che vanno oltre il banco di scuola ma che con l'appoggio della scuola e 'l'occhio' dell'insegnante possono venire allo scoperto.
    Quante volte si sbaglia nel 'classificare', 'stigmatizzare'... dare per ovvio ciò che ovvio non è. Forse sì, anche quell'insegnate ci avrà messo del suo nella formazione del ragazzo. Ma se i genitori le avessero dato retta, e su di lui non fosse piovuta un po' di fiducia, forse ora rimpiangerebbe una possibilità negata.
    Un saluto: Maria Rita

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    1. Grazie, Maria Rita. Hai pienamente ragione. Posso solo aggiungere che, non avendo potuto ascoltare l'altra campana, ho preferito interpretare nel modo migliore l'operato della prof.

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  2. A volte certi giudizi negativi dei proff inescono una voglia di combattere e fargli vedere che hanno sbagliato - a me è successo. Da una non capace cognitivamente sono riuscita a farmi un dottorato di ricerca e di entrare nel modo dell'istruzione nel bene e nel male che sia. Quello che diventiamo dipende molto anche da noi.

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    1. Tina, grazie del commento. Sono d’accordo con te sul fatto che alcuni errori dei docenti posso innescare reazioni nelle quali alcuni alunni trovano le energie per un “riscatto”. Ma quello che scrivi, secondo me, è vero anche quando le motivazioni sono positive. In questi casi, direi che “quello che diventiamo” dipende SOPRATTUTTO da noi, …e in misura crescente con l’aumento dell’età e dell’esperienza.

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Grazie del commento. Sarà pubblicato appena possibile.