sabato 24 marzo 2012

UNA LETTERA AGONIZZANTE

di Sergio Fenizia
Pubblicato sul mensile Fogli, n. 377, gennaio 2012, pp. 12-13

Emmanuel Chaunu è un disegnatore politico e un caricaturista francese. La sua vignetta mi è capitata sotto gli occhi con due anni di ritardo. Sulla sinistra riproduce la scena, ambientata nel 1969, di due genitori che accanto alla maestra urlano chiedendo conto al figlio dei brutti voti in pagella. Sulla parte destra, la stessa scena, ambientata trent’anni dopo: due genitori che, insieme al figlio, urlano chiedendo conto dei brutti voti a una maestra intimorita. La didascalia recita: «Malaise dans l’éducation nationale».
Che anche in Italia da tempo si registri un deterioramento dei rapporti scuola-famiglia non è una novità. Secondo alcuni la causa andrebbe rintracciata nella minore competenza e autorevolezza dei docenti di oggi. Secondo altri nella immaturità di genitori che, invece di occuparsi della crescita dei figli, si preoccupano della loro autostima.

Dove «loro» è riferito ai genitori, non ai figli. Infatti, a parole, molti dichiarano di preoccuparsi del benessere e dell’equilibrio psicologico dei figli, ma nei fatti lo minano alle fondamenta.
Ce ne sono alcuni, infatti, che hanno il chiodo fisso della «difesa» del pargolo a ogni costo. E il pargolo, purtroppo, solo le prime volte se ne vergogna.
Con il tempo finisce con l’abituarsi e poi l’adagiarsi: una situazione comoda, che nel breve periodo risparmia qualche sofferenza, ma che risulta poi dolorosa a lungo andare, quando prima o poi la realtà andrà affrontata per ciò che è.
A volte alcuni genitori non accettano le valutazioni perché non si fidano degli insegnanti, dimostrando di averli scelti a suo tempo senza criterio.
In altre occasioni, il problema sta nella difficoltà di assumere i voti per quello che sono: un aiuto a conoscere la qualità (maggiore o minore) di certe «prestazioni» e, indirettamente, a potersi fare un’idea più aderente alla realtà dell’impegno e dei talenti dei propri figli. Li assumono invece come giudizi sulla persona che precluderanno chi sa quali opportunità future, in una società che ha il culto del valore legale del titolo di studio.
Che si debbano reimpostare queste prospettive per sanare un nostrano «malessere dell’istruzione nazionale»? Non è impossibile. Di genitori equilibrati ce ne sono ancora molti.
Ci pensavo recentemente ascoltato una mamma alle prese con l’orientamento del figlio per la scuola secondaria di secondo grado: «Lui sceglierà l’indirizzo, classico o scientifico. Io l’istituto. Questo è l’accordo che abbiamo».
La signora nutriva la speranza di non ripetere per la scuola superiore lo stesso errore fatto in precedenza. Era rimasta delusa dalla scuola media statale. Non avrebbe potuto immaginare che l’insegnante di lettere sarebbe cambiato ogni anno: in tre anni, tre professori, ciascuno col suo metodo.
Meno male che almeno per la matematica c’era stata continuità. E grazie a Dio la professoressa era pure in gamba. Sapeva il fatto suo. Preparata, appassionata. Una goccia nel deserto, però.
«Tra gennaio e febbraio dovremo fare le preiscrizioni», mi diceva. «Ci stiamo guardando intorno. Conosco un istituto che sarebbe l’ideale per mio figlio: scuola maschile, docenti uomini, un ambiente aperto e allegro. Si troverebbe benissimo. Ma è una scuola paritaria, e i soldi per la retta non li abbiamo. Peccato che di scuole statali così non ce ne siano».
La signora aveva (scandalosamente) ragione. In Italia il diritto all’educazione, quello vero, ha una consistenza debole. È una lettera agonizzante della nostra Costituzione.
In questo àmbito l’Italia repubblicana ha molta strada da percorrere. È molto indietro rispetto a Paesi, come per esempio l’Australia, in cui nello Stato del Nuovo Galles del Sud «il governo ha fondato circa 40 scuole superiori separate per sesso. Come la Epping Boys High School, si trovano soprattutto a Sydney e rappresentano il 12 per cento degli istituti superiori di questo Stato australiano».
Alla signora sarebbero luccicati gli occhi se avesse ascoltato il servizio di Euronews del 19 dicembre scorso.
In alcuni Stati australiani, dunque, i genitori posso scegliere liberamente tra scuole statali miste e scuole statali omogenee. Ancora un miraggio per le famiglie italiane. Un miraggio che, però, comincia ad acquistare i contorni di un’ipotesi verosimile, stando a quanto emerso da un workshop del 29 settembre scorso presso il Reale Albergo delle Povere, sede della Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Palermo.
Per iniziativa congiunta di docenti di questa Facoltà e di quella di Giurisprudenza, è stato approfondito il tema: «Diritto fondamentale alla libertà di educazione. La scuola omogenea per sesso, una modalità organizzativa».
Uno dei massimi esperti europei dell’argomento, José Luis Martínez López-Muñiz, dell’Università di Valladolid (Spagna), ha esposto argomenti molto convincenti riguardo al fatto che in Europa l’evoluzione dello Stato di diritto si sta orientando verso un riconoscimento effettivo del «diritto fondamentale dell’educazione in libertà» che include il diritto «alla scelta del modello di educazione specifica per sesso, insieme alla scelta della scuola single-sex».
«Tutti hanno diritto a questa libertà di scelta», è stato spiegato, «che va resa effettiva, per quanto possibile, nei centri privati o anche in quelli pubblici». «Come tutto ciò che fa parte del diritto all’educazione, trattandosi di un diritto prestazionale, i pubblici poteri devono assicurarne la piena attuazione».
Considerazioni che contribuiscono a una migliore comprensione del problema giuridico, alla quale andrebbe associata una maggiore consapevolezza psicologica della sofferenza che comporta per un genitore il fatto di non poter scegliere liberamente la scuola per i propri figli e vedere limitato da ragioni economiche l’esercizio del proprio diritto.

7 commenti:

  1. Ciao Sergio,
    uno Stato che non dà valore all'Istruzione e non cura le scuole è indegno di un paese civile ed è destinato a soccombere, perchè non si evolve. E mi sembra che in Italia stiamo assistendo ad un progressivo smantellamento della cultura, oramai trattata come merce di scambio, il cui valore dipende unicamente dall'utile che se ne può ricavare. Da insegnante assisto con molta tristezza alla decadenza della scuola, non mi piace il paragone pubblico-privato, soprattutto se finalizzato a denigrare la scuola pubblica e credo ci voglia onestà e coraggio per analizzare obiettivamente la situazione e mettere in atto soluzioni serie e sensate. Ritengo che non si possano ottenere risultati soddisfacenti senza interpellare gli insegnanti, che su questo fronte ci stanno tutti i giorni. Credo, inoltre, che bisognerebbe restituire agli insegnanti la dignità e il rispetto che riserviamo ad ogni serio professionista e forse considerare l'ipotesi di una valutazione veramente meritocratica del professore e non meramente burocratica.

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    1. Salve Monica. Grazie degli spunti.
      Concordo con te sulla necessità di riconoscere che gli insegnanti sono dei professionisti. Sulla loro valutazione, invece, non ho ancora trovato una proposta che mi convinca del tutto.
      Sullo “smantellamento della cultura” e sulla “decadenza della scuola”, sono un po’ restio a cercare le cause al di fuori del mondo della scuola. Penso che noi insegnanti possiamo lavorare abbastanza bene anche in condizioni “proibitive”. Vedo colleghi che ci riescono, li ammiro, cerco di imitarli, e penso che proprio grazie loro si farà strada il riconoscimento di cui parli.
      Ovviamente, legislatore e i governanti hanno le proprie responsabilità – e indirettamente noi che li votiamo–, ma guardo con ottimismo alle prospettive che si sono aperte da una dozzina di anni in Italia con le norme sull’autonomia scolastica.

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  2. Sono d'accordo: il tutto sta proprio nel lavorare bene, dare il meglio di sè in ciò che ci è richiesto! Effettivamente non posso dire che questa sia una priorità per ognuno, perchè continuo a credere che in questo lavoro è indispensabile la passione e la voglia di reinventarsi ogni giorno. Per questo sostengo che la valutazione di un insegnante unicamente sulla base del punteggio in graduatoria non possa essere esaustiva della qualità del suo lavoro. Ed è certo che le cause vanno cercate all'interno...
    E poi è vero, occorre essere ottimisti e rimboccarsi le mani...certo, non ci sono i fondi, ma qualche volta mi viene anche il dubbio che siano distribuiti male o che non si registrerebbe un rilevante miglioramento della qualità dell'istruzione se ci fossero più fondi, perchè prima di tutto deve cambiare la mentalità delle persone.

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    1. Condivido le tue parole: “in questo lavoro è indispensabile (…) la voglia di reinventarsi ogni giorno. Per questo sostengo che la valutazione di un insegnante unicamente sulla base del punteggio in graduatoria non possa essere esaustiva della qualità del suo lavoro”.

      A me sembra che un criterio abbastanza attendibile sia l’opinione dei colleghi.

      Condivido anche queste: “mi viene anche il dubbio che (…) non si registrerebbe un rilevante miglioramento della qualità dell'istruzione se ci fossero più fondi, perché prima di tutto deve cambiare la mentalità delle persone”.

      Sembra un paradosso, ma in questa prospettiva viene quasi da pensare che il problema principale della scuola sia culturale, ancor prima che economico o altro.

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  3. Il pensiero scaturisce dall'osservazione della semplice realtà quotidiana: la natura dei ragazzi è cambiata, diverso il loro modo di porsi e le loro esigenze e non è più pensabile un modello di insegnante stile "apro il libro, spiego, chiudo ed esco", non funziona, bisogna lasciarsi coinvolgere. Io lo sperimento, è sicuramente faticoso e richiede equilibrio, ma poi ti vengono dietro e si appassionano a cose che non avrebbero mai pensato potessero interessargli (io insegno matematica e scienze in una scuola media e vedere qualcuno che si appassiona a ciò è un miracolo!). E una considerazione analoga si può fare sulle tecniche: che piaccia o no siamo nell'era digitale e questi ragazzi sono nati conoscendo prima il pc che il biberon, quindi il netto rifiuto da parte di un'insegnante ad utilizzare questi strumenti viene letto come una barriera tra alunni e professore, come il rifiuto di entrare in contatto con il loro mondo e parlare il loro linguaggio.
    Anche a me l'opinione dei colleghi e, in uno stile di serietà e collaborazione, talvolta anche dei genitori sembra uno strumento attendibile.

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    1. Grazie, Monica.
      Condivido quello che scrivi, tranne, forse, questo passaggio:
      "non è più pensabile un modello di insegnante stile 'apro il libro, spiego, chiudo ed esco', non funziona,"
      Secondo me questo non è (e non è mai stato) un modello di insegnante. Soprattutto se per insegnante si intende una persona che educa attraverso la disciplina che insegna.

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  4. Condivido, ma ce ne sono che lo pensano...
    E sono poi i più nervosi e quelli che hanno sempre la sensazione di non aver concluso niente, perchè non hanno svolto il programma.

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Grazie del commento. Sarà pubblicato appena possibile.