giovedì 27 giugno 2013

TRE COLONNE


di Sergio Fenizia
Pubblicato sul mensile Fogli, n. 393, maggio 2013, pp. 10-11.

Agli istituti paritari messi in ginocchio dalla crisi economica, si aggiungeranno due scuole omogenee di Palermo, l’Altavilla (maschile) e l’Imera (femminile). Quest’anno concluderanno una felice esperienza ultra trentennale.

La notizia, accanto allo stupore e al dolore, ha suscitato numerose attestazioni di stima e di gratitudine da parte di genitori, ex alunni e cittadini qualsiasi che negli anni ne hanno apprezzato l’efficacia. La semina evidentemente è stata buona e già si intravedono germogli di una nuova stagione, come conferma la lettera che segue. Per necessità di spazio abbiamo dovuto abbreviala. Ce ne scusiamo con l’autore e con i lettori. La versione integrale è disponibile a questo link

Luca Lucchesi «è nato a Palermo quasi 30 anni fa. Laureatosi in Scienze Giuridiche con una tesi sulla Giustizia come Narrazione, insegue da allora la sua passione per il racconto in giro per il mondo. Paga l’affitto a Berlino dove lavora come aiuto regia per il maestro Wim Wenders». A lui la parola.  S. F. 

Il regista Luca Lucchesi
Istanbul, Monaco, Praga, Münster, Berlino e infine Palermo,
25 febbraio - 24 aprile 2013

A mio padre, alla Scuola Altavilla, a Palermo. Alle tre colonne portanti della mia vita. Sotto ci sono le fondamenta, è vero. Ma alle  colonne adesso indirizzo questa specie di resoconto irresponsabile, stilato a fronte di una inattesa chiamata all’azione, al coraggio forse.

Durante le ultime vacanze natalizie ho portato mia figlia a far visita per la prima volta ai nonni a Palermo. Una gioia immensa, come sempre, ritrovare le sensazioni di casa, le voci delle strade, della memoria. Tra un discorso e l’altro, sottovoce, arriva la notizia che ci sono problemi a scuola.

Ho quasi 30 anni adesso. Di lavoro faccio il regista. Non vivo più in Italia. Quando ho cominciato a scrivere queste righe, mi trovavo a Istanbul con il protagonista del documentario a cui sto lavorando. Abbiamo raccolto una storia tra le altre lì e con quella voglio cominciare.

Ci trovavamo a Balat, un quartiere della periferia che in realtà è ancora il centro della mastodontica capitale da 18 milioni di abitanti. Siamo andati lì perché lì non vanno i turisti. Ci vivono famiglie e gente del popolo.

Dopo una giornata di riprese, per bere del tè ci sediamo in una specie di circolo, perché a Balat non ci sono bar. A un certo punto realizziamo di trovarci in un luogo di preghiera e di misticismo intensi, dove le persone non chiedono ma offrono. Di lì a un passo ci saremmo trovati immersi nella musica estatica dei Sufi.

I Sufi sono vietati in Turchia. Colpa di Ataturk. Li hanno ridotti invece a folklore, per il turista spendaccione che poi racconta di aver visto il Dervish rotare e che gli è sembrato una cosa davvero bella.

Noi abbiamo avuto il privilegio dell’ascolto. E per questo abbiamo conosciuto la via di una piccola verità. E anche questa piccola storia. Abbiamo chiesto a uno dei nostri nuovi amici quanti Sufi ci fossero a Istanbul. Lui ci ha sorriso con uno sguardo pieno di intelligenza. Dice che tutti, forse nessuno. Essere Sufi vuol dire immettersi in una strada che conduce alla perfezione.

Chi abbia raggiunto la perfezione? Il maestro, l’Effendi Baba, sicuramente. Quanto agli altri. Siamo tutti in cammino. Questo è il nostro vero sentirci esseri umani, comunità di uomini e donne, cellule dell’unico Amore. Allora ho pensato che se anche noi fossimo in cammino verso una perfezione, saremmo anche noi cellule dell’unico Amore, comunità di uomini e donne, esseri umani. E se anche non lo fossimo, c’è sempre una casa tra i vicoli di Balat, dove ogni martedì e giovedì, innumerabili uomini e donne mantengono insieme viva la scintilla del focolare umano, cantando le storie del mondo, invocando l’unico nome che le contiene tutte.

E questa storia mi ha fatto pensare a te, papà. Anche tu sei da sempre attorno a quella scintilla, costantemente da una vita, per onorarla e nell’onorarla, mantenendola viva, non per se stessa, ma per il presentimento di futuro che è l’aroma sacro delle tue parole di incenso.

Eppure anche io l’ho criticata, e aspramente, la scuola che hai contribuito a fondare e dove ho trascorso i 13 anni della mia vita scolastica preuniversitaria. La seconda colonna. L’ho criticata, io adolescente, in primo luogo perché rappresentava per me la figura paterna, e a quell’età è proprio la natura che ci chiede di essere contro tutto e tutti. L’ho criticata perché non c’erano le femmine, e le femmine sono la cosa più importante. L’ho criticata perché soprattutto gli altri non ci andavano, e io volevo essere soprattutto gli altri.

Però contemporaneamente, sotterraneamente, fondamenta di madre, quella scintilla faceva il suo lavoro, custodiva, scaldava, irradiava, contagiava, educava, imparava… Imparare è il migliore degli insegnamenti. E la critica si trasformava in consapevolezza. 
Quando andavo io a scuola, l’Altavilla era in corso Calatafimi, all’Albergo delle Povere. Che posto meraviglioso.

Non avrei potuto avere un’istruzione migliore. Di questo ne sono certo. È stata un’educazione intensa, intelligente e duratura. Non per le conoscenze o la cultura che mi sono state trasmesse. Ma per il modo di pensare, il processo stesso del pensare, la struttura pensante: il fuoco sbocciato da quella scintilla tenuta costantemente viva durante i 13 anni della mia scuola Altavilla.

La nostalgia ci rende schiavi del futuro. Ma se questo futuro è corroso dalla insaziabile rovina, dal presentimento della dittatura, dal preludio alla disgrazia, l’anticamera della morte. Se questo futuro è già nostalgico di per sé, forse è il caso di rimboccarsi le maniche e dirne quattro a noi stessi, prima ancora che agli altri.

Perché se le colonne portanti della nostra vita, che hanno retto sane e robuste fino a oggi, adesso, improvvisamente, collassano sotto gli attacchi ricattatori di un futuro a debito, i primi sabotatori siamo noi, irriconoscenti e pigri.

E per questo arrivo a te, infine, terza colonna del disastro. Palermo.

Che ricoperta di ghiaccio sudi. Che al solleone tremi di brividi di rispetto. Palermo priva di amor proprio; che ti vanti dell’insieme, ma annacqui nella miseria del dettaglio; disfatta infinitesimale per ogni infinita parte del tuo colabrodo. E che adesso perdi una scuola perché avevi già perso le strade, i panifici, i supermercati, le salumerie, i cinema, i cinema, i cinema. I teatri e la musica.

E allora mi domando a che pro la scintilla, a che pro la sentinella, a che pro tutto quanto.

E io che mi credevo al sicuro sotto quel tempio retto da tre colonne. Ora che a poco a poco le colonne cedono, mi chiedo come sia possibile che tutto continui, come è possibile che il tetto non sia ancora del tutto crollato. Ci sarà, penso, da qualche parte, dimenticata, una quarta colonna che continua a fare il suo lavoro. La colonna della speranza. Quel nome ripetuto all’infinito al mondo, perché non cessi di essere mondo.

O forse sono le fondamenta di madre. Che reggono tutto in piedi, nonostante tutto.

L.L.

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