sabato 26 novembre 2011

UNA (POSSIBILE) VALUTAZIONE FORMATIVA

di Sergio Fenizia
Pubblicato sul mensile Fogli, n. 366, febbraio 2011, pp. 8-9.

Le cicliche occupazioni di scuole da parte di adolescenti a volte inconsapevoli dell’illegalità oltre che dell’ingiustizia di certe prassi, erodono la coscienza democratica dei protagonisti e ne alimentano un’irresponsabilità che non mancherà di ritorcersi anche contro coloro che le tollerano, le sfruttano o ne gonfiano mediaticamente le dimensioni.

L’entusiasmo dei giovani ha un che di affascinante.
La foga con cui si buttano nelle imprese che li appassionano è, invece, preoccupante quando questa limita il loro orizzonte a ciò che semplicemente li eccita.


Essere e sentirsi protagonisti, lo desideriamo tutti. Ma lanciarsi all’azione senza un’adeguata riflessione, comporta il rischio di illudersi di realizzare una cosa grande (occupare una scuola, bloccare un treno di pendolari che si erano alzati alle 5 del mattino ecc.) e ritrovarsi ad aver fatto una cosa cretina.

Certo, accanto (o dietro) a chi l’azione irresponsabile l’ha compiuta, c’è chi l’ha pianificata, magari per fornire un supporto facile (e gratuito) a una manovra politica il cui nocciolo si gioca forse in un Parlamento. Ormai si sa che nel periodo prenatalizio di ogni anno chiunque può contare su una certa massa inerte di adolescenti, curiosi di fronte al nuovo (nuovo per loro), ansiosi di vivere la loro prima esperienza di «manifestazione», di «occupazione» ecc. Chi di noi non ha provato sensazioni simili o almeno analoghe, tra i manifestanti o gli anti-manifestanti!
In un mondo scolastico che si orienta, però, sempre più verso panorami di maggiore efficacia ed efficienza del servizio pubblico offerto dai vari istituti, siano essi gestiti da enti pubblici o privati, non sembra fuori luogo proporre una possibile valutazione delle scuole anche alla luce di fenomeni come questi.

Giovani che vandalizzano il proprio istituto, o che impediscono ai coetanei (a volte anche meno abbienti) di esercitare il proprio diritto allo studio, o che negano ai propri docenti il diritto alla libertà d’insegnamento ecc., questi giovani costituiscono, per quanto ridotto sia il loro numero, un oggettivo esempio di insuccesso (o per lo meno di parziale successo) educativo.


I docenti delle scuole interessate da tali fenomeni, la cui sistematicità e consistenza ideologica ormai rasenta il ridicolo, potrebbero avviare una seria riflessione su alcuni esiti evidenti della propria azione educativa.


Ogni docente si chiede spesso che senso abbia il proprio lavoro. Ma solo alcuni si chiedono anche che senso esso abbia per i propri alunni.


Intendiamo dire che ogni studente dovrebbe essere consapevole che le competenze che la scuola lo aiuta ad acquisire non esauriscono l’aiuto che hanno diritto a ricevere per la propria crescita. Infatti non sono fini a sé stesse, ma puntano a rendere migliore la sua persona e la sua vita, ad accrescere il contributo che lui può dare al bene e alla felicità di chi lo circonda e, in ultima analisi, al bene di tutta la società, a cominciare da quella piccola prima cellula della società che è la (sua) famiglia.


Non tutti gli insegnanti, però, vedono (e vivono) la propria professione allo stesso modo. Inoltre, oggi i punti fermi sono meno numerosi e meno fermi anche per chi lavora nella scuola. È, quindi, opportuno che ci sia maggiore chiarezza sul reale progetto che famiglie e docenti si impegnano a condividere in ogni singolo istituto.


Chiarezza alla quale dovrebbe corrispondere una effettiva libertà dei gestori di scegliere gli insegnanti e dei genitori di scegliere la scuola.


Alcuni docenti, infatti, si sentono impegnati a favorire la formazione delle competenze degli allievi, in una prospettiva settorializzata nella quale trova spazio una «educazione» che si riduce ai «valori» minimi che in quel dato contesto sono socialmente condivisi da tutti, senza la «pretesa» di garantire il collegamento di ciò che si insegna con una verità ontologica.
Altri colleghi, invece, intendono il proprio lavoro in un senso più forte. Non si accontentano di insegnare le competenze, per esempio, per progettare e realizzare un’impresa difficile disinteressandosi della bontà o meno del fine per il quale tali competenze verranno impiegate (un perfetto attentato terroristico... o un perfetto ospedale...). Tali insegnanti, in genere, sanno (e tremano di fronte a questa consapevolezza) che il soggetto-protagonista della loro azione di istruzione-educazione è un essere umano libero, dotato di risorse preziose, non ancora autonomo, «aperto» sempre al bene e al male. In questa prospettiva sono coscienti che la formazione operativa, disciplinare, che promuovono nei propri alunni è solo una componente molto importante del proprio lavoro, ma non costituisce il centro del processo educativo al quale sono chiamati a dare il proprio contributo.

Riguardo alle proteste studentesche, pur da prospettive differenti, ciascun insegnante potrebbe riflettere sul significato del comportamento dei propri alunni nelle vicende in questione.


Chiedersi se sono stati dei pecoroni che hanno seguito la moda, o se invece sono stati tra i promotori dei disordini e l’hanno fatto in modo irresponsabile o inconsapevoli di essere strumentalizzati.


O se invece sono stati tra coloro che strumentalizzavano gli altri, e così via. Tali o analoghe domande potranno offrire interessanti spunti educativi alla luce di una valutazione in senso formativo che può ben avere per oggetto anche comportamenti non strettamente «scolastici».


E se il confronto si estenderà dai colleghi anche agli stessi ragazzi, non mancherà di essere molto fruttuoso.

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