sabato 22 marzo 2014

LA STORIA RACCONTATA



di Sergio Fenizia
Pubblicato sul mensile Fogli, n. 394, giugno 2013, pp. 10-11.

«Prof, ma quando finiremo di studiare la storia?».

Può sembrare strano, ma quel ragazzo di scuola media non pensava al programma scolastico, né al libro di testo, che conosceva abbastanza bene. No. Lui pensava proprio alla storia, a quella che costruiscono con le loro vite gli uomini e le donne di ogni tempo. Ma ci pensava in modo intuitivo. E si domandava, a voce alta, se mai un giorno si sarebbe arrivati a conoscerla tutta, la storia. Più che una domanda, comunque, era forse l’esternazione del suo stupore di fronte all’immensità del mondo e dell’esistenza dell’uomo.

Il prof non lascia cadere la cosa. Inizia con un breve cenno alle microstorie di ciascuno di noi. Poi – erano i giorni delle inattese dimissioni di un Papa e dell’elezione di un altro, entrambi molto amati – spinge gli alunni a riflettere sulla portata epocale degli eventi che stavano vivendo, lui e loro. Probabilmente non ci avevano pensato.

Certamente non potevano avere la prospettiva del loro docente. In quei giorni stavano vivendo qualcosa di cui si sarebbe parlato, domani, nei libri di storia. Il fatto che ne parlassero, oggi, tutti i mass media, non era un indice sufficiente. Tantomeno lo era il fatto che tali eventi riempissero le prime pagine dei giornali. Le logiche dei mass media sono differenti. Per capire il rilievo che quei fatti avevano, avrebbero avuto, per l’umanità, ci voleva l’esperienza del prof.

Trascorso qualche giorno, con un altro registro, forse anche con altri interlocutori, arriva un esempio di microstoria. Il prof racconta, poi scrive, poi rimaneggia lo scritto.

Quante volte avviene. In quante scuole ai ragazzi si offrono testimonianze di prima mano, raccolte in casa, in strada, in un ufficio, in un ospedale, in un ospizio.

Eccone una, che abbiamo ricevuto da un lettore e che con piacere riproponiamo integralmente. L’autore è un giovane insegnante di lettere (alla scuola media) e storico dell’arte. Uno che ama davvero il suo lavoro e che ci tiene alle proprie radici.


Marzo del 1941.

Un automezzo dell’esercito percorre una strada polverosa.
Si sta allontanando da Derna, città della Cirenaica, provincia del Regno d’Italia.

Gli alleati anglo-francesi stanno prendendo sempre più campo nonostante la resistenza delle truppe italo-tedesche guidate da Rommel.

La strada si snoda silenziosa e silenziosi sono i tre occupanti del mezzo. Solo i sobbalzi causati dalle pietre e i cigolii della carrozzeria sembrano dare vita e suoni all’equipaggio.

Tre giovani uomini viaggiano cercando di raggiungere il luogo che il comando ha loro destinato. Le divise sono quelle dell’esercito italiano.

Nell’aria arrivano gli echi di pesanti aeroplani, carichi di bombe e uomini.

Il viaggio continua immerso nei pensieri.

Sulla strada appare un’ombra lontana. Più ci si avvicina più quell’ombra acquista consistenza, corpo, braccia, gambe e volto. Il volto di un uomo lasciato a terra, senza vita. Non c’è tempo per fermarsi.

L’autista si volge ai suoi due compagni. Non c’è tempo.

Nonostante la paura l’ufficiale più alto in grado ordina di fermarsi. Nonostante la guerra l’uomo non ha perso la propria umanità. Non si può passare su quel corpo, non lo si può lasciare così.

Il rombo degli arerei si fa sempre più vicino. Anche i mezzi dei nemici avanzano inesorabilmente.

L’automobile si ferma, gli uomini scendono per spostare il cadavere e dargli sepoltura.

Un boato, il suono metallico delle lamiere che si deformano, i vetri si spezzano in frammenti che diventano pioggia graffiante. Gli uomini si guardano, guardano la strada, guardano il loro mezzo di trasporto distrutto. Rimane a terra uno specchietto, un taglio al centro del vetro testimonia la ferita dell’esplosione. L’ufficiale lo raccoglie, e dopo avergli soffiato via la polvere, lo conserva nella sua sacca.
C’è una storia che dovrà essere raccontata e di cui quello specchietto è testimone. La stessa storia che avevo dimenticato ma che un giorno a pranzo, chiacchierando con un amico, è tornata prepotentemente a farsi raccontare. Quell’ufficiale si chiamava Matteo Falica, anche se io l’ho sempre conosciuto e amato come Amedeo, ed era mio nonno.

Riccardo Siragusa


Fin qui il fortunato nipote di tale nonno. Ma che invidia anche per quei ragazzi di 11-13 anni che tra i banchi di scuola possono ascoltare un insegnante di storia che attraverso una disciplina curriculare li educa al gusto per lo studio, li orienta al senso della vita, li mette a contatto con la polvere, con il dolore, con la compassione, con la pietà, con il coraggio, con la Provvidenza.

Non ha importanza se quei resti (di un militare? di un civile?) sono di un «amico» o di un «nemico». È il corpo di un essere umano. Vale la pena dedicargli un po’ di tempo, un po’ di attenzione? E di farlo in guerra? È giusto attardarsi per questo? È un’imprudenza o è un rischio ragionevole? In questa situazione, il rispetto per i resti di un uomo vale alcuni minuti? Quelli necessari a scavare rapidamente una fossa, ad alzare una piccola croce, e a recitare rapidamente, ma senza fretta, una preghiera?

Quello che è certo, è che la raffica partita dall’aereo ha crivellato un automezzo vuoto. Vuoto da pochi secondi. Vuoto perché gli occupanti erano appena scesi per seppellire uno sconosciuto.

Uno sconosciuto che dall’alto avrà strizzato l’occhio al pilota dell’aereo, un uomo anche lui, che – come spesso accade in guerra – avrà spesso pregato Iddio che l’adempimento del suo dovere di buon soldato avesse il minor costo possibile, in termini di vite, di sofferenze. E Dio, come sempre, sistema le cose nel modo migliore, rispettando la nostra libertà, e quella di soldati che non hanno dimenticato di essere prima di tutto uomini.

Come scrive il professore Siragusa, «nonostante la guerra l’uomo non ha perso la propria umanità».

Nessun commento:

Posta un commento

Grazie del commento. Sarà pubblicato appena possibile.