di Sergio Fenizia
Pubblicato sul mensile Fogli, n. 393, maggio 2013, pp.
10-11.
Agli istituti paritari messi in ginocchio dalla crisi economica, si aggiungeranno due scuole omogenee di Palermo, l’Altavilla (maschile) e l’Imera (femminile). Quest’anno concluderanno una felice esperienza ultra trentennale.
La notizia, accanto allo stupore e al dolore, ha suscitato
numerose attestazioni di stima e di gratitudine da parte di genitori, ex alunni
e cittadini qualsiasi che negli anni ne hanno apprezzato l’efficacia. La semina
evidentemente è stata buona e già si intravedono germogli di una nuova stagione,
come conferma la lettera che segue. Per necessità di spazio abbiamo dovuto
abbreviala. Ce ne scusiamo con l’autore e con i lettori. La versione integrale è disponibile a questo link
Luca Lucchesi «è nato a Palermo quasi 30 anni fa. Laureatosi
in Scienze Giuridiche con una tesi sulla Giustizia come Narrazione, insegue da
allora la sua passione per il racconto in giro per il mondo. Paga l’affitto a
Berlino dove lavora come aiuto regia per il maestro Wim Wenders». A lui la
parola. S. F.
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Il regista Luca Lucchesi |
Istanbul, Monaco,
Praga, Münster, Berlino e infine Palermo,
25 febbraio - 24 aprile
2013
A mio padre, alla Scuola Altavilla, a Palermo. Alle tre
colonne portanti della mia vita. Sotto ci sono le fondamenta, è vero. Ma alle colonne adesso
indirizzo questa specie di resoconto irresponsabile, stilato a fronte di una
inattesa chiamata all’azione, al coraggio forse.
Durante le ultime vacanze natalizie ho portato mia figlia a
far visita per la prima volta ai nonni a Palermo. Una gioia immensa, come sempre,
ritrovare le sensazioni di casa, le voci delle strade, della memoria. Tra un
discorso e l’altro, sottovoce, arriva la notizia che ci sono problemi a scuola.
Ho quasi 30 anni adesso. Di lavoro faccio il regista. Non
vivo più in Italia. Quando ho cominciato a scrivere queste righe, mi trovavo a
Istanbul con il protagonista del documentario a cui sto lavorando. Abbiamo
raccolto una storia tra le altre lì e con quella voglio cominciare.
Ci trovavamo a Balat, un quartiere della periferia che in
realtà è ancora il centro della mastodontica capitale da 18 milioni di
abitanti. Siamo andati lì perché lì non vanno i turisti. Ci vivono famiglie e
gente del popolo.
Dopo una giornata di riprese, per bere del tè ci sediamo in
una specie di circolo, perché a Balat non ci sono bar. A un certo punto
realizziamo di trovarci in un luogo di preghiera e di misticismo intensi, dove
le persone non chiedono ma offrono. Di lì a un passo ci saremmo trovati immersi
nella musica estatica dei Sufi.
I Sufi sono vietati in Turchia. Colpa di Ataturk. Li hanno
ridotti invece a folklore, per il turista spendaccione che poi racconta di aver
visto il Dervish rotare e che gli è sembrato una cosa davvero bella.
Noi abbiamo avuto il privilegio dell’ascolto. E per questo
abbiamo conosciuto la via di una piccola verità. E anche questa piccola storia.
Abbiamo chiesto a uno dei nostri nuovi amici quanti Sufi ci fossero a Istanbul.
Lui ci ha sorriso con uno sguardo pieno di intelligenza. Dice che tutti, forse
nessuno. Essere Sufi vuol dire immettersi in una strada che conduce alla
perfezione.
Chi abbia raggiunto la perfezione? Il maestro, l’Effendi
Baba, sicuramente. Quanto agli altri. Siamo tutti in cammino. Questo è il
nostro vero sentirci esseri umani, comunità di uomini e donne, cellule
dell’unico Amore. Allora ho pensato che se anche noi fossimo in cammino verso
una perfezione, saremmo anche noi cellule dell’unico Amore, comunità di uomini e
donne, esseri umani. E se anche non lo fossimo, c’è sempre una casa tra i
vicoli di Balat, dove ogni martedì e giovedì, innumerabili uomini e donne
mantengono insieme viva la scintilla del focolare umano, cantando le storie del
mondo, invocando l’unico nome che le contiene tutte.
E questa storia mi ha fatto pensare a te, papà. Anche tu sei
da sempre attorno a quella scintilla, costantemente da una vita, per onorarla e
nell’onorarla, mantenendola viva, non per se stessa, ma per il presentimento di
futuro che è l’aroma sacro delle tue parole di incenso.
Eppure anche io l’ho criticata, e aspramente, la scuola che
hai contribuito a fondare e dove ho trascorso i 13 anni della mia vita
scolastica preuniversitaria. La seconda colonna. L’ho criticata, io
adolescente, in primo luogo perché rappresentava per me la figura paterna, e a
quell’età è proprio la natura che ci chiede di essere contro tutto e tutti.
L’ho criticata perché non c’erano le femmine, e le femmine sono la cosa più importante.
L’ho criticata perché soprattutto gli altri non ci andavano, e io volevo essere
soprattutto gli altri.
Però contemporaneamente, sotterraneamente, fondamenta di
madre, quella scintilla faceva il suo lavoro, custodiva, scaldava, irradiava,
contagiava, educava, imparava… Imparare è il migliore degli insegnamenti. E la
critica si trasformava in consapevolezza.
Quando andavo io a scuola,
l’Altavilla era in corso Calatafimi, all’Albergo delle Povere. Che posto
meraviglioso.
Non avrei potuto avere un’istruzione migliore. Di questo ne
sono certo. È stata un’educazione intensa, intelligente e duratura. Non per le
conoscenze o la cultura che mi sono state trasmesse. Ma per il modo di pensare,
il processo stesso del pensare, la struttura pensante: il fuoco sbocciato da
quella scintilla tenuta costantemente viva durante i 13 anni della mia scuola
Altavilla.
La nostalgia ci rende schiavi del futuro. Ma se questo
futuro è corroso dalla insaziabile rovina, dal presentimento della dittatura,
dal preludio alla disgrazia, l’anticamera della morte. Se questo futuro è già
nostalgico di per sé, forse è il caso di rimboccarsi le maniche e dirne quattro
a noi stessi, prima ancora che agli altri.
Perché se le colonne portanti della nostra vita, che hanno
retto sane e robuste fino a oggi, adesso, improvvisamente, collassano sotto gli
attacchi ricattatori di un futuro a debito, i primi sabotatori siamo noi,
irriconoscenti e pigri.
E per questo arrivo a te, infine, terza colonna del disastro.
Palermo.
Che ricoperta di ghiaccio sudi. Che al solleone tremi di
brividi di rispetto. Palermo priva di amor proprio; che ti vanti dell’insieme,
ma annacqui nella miseria del dettaglio; disfatta infinitesimale per ogni
infinita parte del tuo colabrodo. E che adesso perdi una scuola perché avevi già
perso le strade, i panifici, i supermercati, le salumerie, i cinema, i cinema, i
cinema. I teatri e la musica.
E allora mi domando a che pro la scintilla, a che pro la
sentinella, a che pro tutto quanto.
E io che mi credevo al sicuro sotto quel tempio retto da tre
colonne. Ora che a poco a poco le colonne cedono, mi chiedo come sia possibile che
tutto continui, come è possibile che il tetto non sia ancora del tutto
crollato. Ci sarà, penso, da qualche parte, dimenticata, una quarta colonna che
continua a fare il suo lavoro. La colonna della speranza. Quel nome ripetuto
all’infinito al mondo, perché non cessi di essere mondo.
O forse sono le fondamenta di madre. Che reggono tutto in
piedi, nonostante tutto.
L.L.
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