di Sergio Fenizia
Pubblicato sul mensile Fogli, n. 394, giugno 2013, pp. 10-11.
Pubblicato sul mensile Fogli, n. 394, giugno 2013, pp. 10-11.
«Prof, ma quando finiremo di studiare la storia?».

Il prof non lascia cadere la cosa. Inizia con un breve cenno
alle microstorie di ciascuno di noi. Poi – erano i giorni delle inattese
dimissioni di un Papa e dell’elezione di un altro, entrambi molto amati –
spinge gli alunni a riflettere sulla portata epocale degli eventi che stavano
vivendo, lui e loro. Probabilmente non ci avevano pensato.
Certamente non potevano avere la prospettiva del loro docente.
In quei giorni stavano vivendo qualcosa di cui si sarebbe parlato, domani, nei libri
di storia. Il fatto che ne parlassero, oggi, tutti i mass media, non era un
indice sufficiente. Tantomeno lo era il fatto che tali eventi riempissero le
prime pagine dei giornali. Le logiche dei mass media sono differenti. Per
capire il rilievo che quei fatti avevano, avrebbero avuto, per l’umanità, ci
voleva l’esperienza del prof.
Trascorso qualche giorno, con un altro registro, forse anche con
altri interlocutori, arriva un esempio di microstoria. Il prof racconta, poi scrive,
poi rimaneggia lo scritto.
Quante volte avviene. In quante scuole ai ragazzi si offrono
testimonianze di prima mano, raccolte in casa, in strada, in un ufficio, in un
ospedale, in un ospizio.
Eccone una, che abbiamo ricevuto da un lettore e che con piacere
riproponiamo integralmente. L’autore è un giovane insegnante di lettere (alla scuola media)
e storico dell’arte. Uno che ama davvero il suo lavoro e che ci tiene alle proprie radici.
Marzo del 1941.
Un automezzo dell’esercito percorre una strada
polverosa.
Si sta allontanando da Derna, città della Cirenaica, provincia del Regno d’Italia.
Si sta allontanando da Derna, città della Cirenaica, provincia del Regno d’Italia.
Gli alleati anglo-francesi stanno prendendo
sempre più campo nonostante la resistenza delle truppe italo-tedesche guidate
da Rommel.
La strada si snoda silenziosa e silenziosi sono
i tre occupanti del mezzo. Solo i sobbalzi causati dalle pietre e i cigolii
della carrozzeria sembrano dare vita e suoni all’equipaggio.
Tre giovani uomini viaggiano cercando di
raggiungere il luogo che il comando ha loro destinato. Le divise sono quelle
dell’esercito italiano.
Nell’aria arrivano gli echi di pesanti
aeroplani, carichi di bombe e uomini.
Il viaggio continua immerso nei pensieri.
Sulla strada appare un’ombra lontana. Più ci si avvicina più
quell’ombra acquista consistenza, corpo, braccia, gambe e volto. Il volto di un
uomo lasciato a terra, senza vita. Non c’è tempo per fermarsi.
L’autista si volge ai suoi due compagni. Non c’è tempo.
Nonostante la paura l’ufficiale più alto in grado ordina di
fermarsi. Nonostante la guerra l’uomo non ha perso la propria umanità. Non si
può passare su quel corpo, non lo si può lasciare così.
Il rombo degli arerei si fa sempre più vicino.
Anche i mezzi dei nemici avanzano inesorabilmente.
Un boato, il suono metallico delle lamiere che
si deformano, i vetri si spezzano in frammenti che diventano pioggia graffiante.
Gli uomini si guardano, guardano la strada, guardano il loro mezzo di trasporto
distrutto. Rimane a terra uno specchietto, un taglio al centro del vetro
testimonia la ferita dell’esplosione. L’ufficiale lo raccoglie, e dopo avergli
soffiato via la polvere, lo conserva nella sua sacca.
C’è una storia che dovrà essere raccontata e di cui quello specchietto è testimone. La stessa storia che avevo dimenticato ma che un giorno a pranzo, chiacchierando con un amico, è tornata prepotentemente a farsi raccontare. Quell’ufficiale si chiamava Matteo Falica, anche se io l’ho sempre conosciuto e amato come Amedeo, ed era mio nonno.
C’è una storia che dovrà essere raccontata e di cui quello specchietto è testimone. La stessa storia che avevo dimenticato ma che un giorno a pranzo, chiacchierando con un amico, è tornata prepotentemente a farsi raccontare. Quell’ufficiale si chiamava Matteo Falica, anche se io l’ho sempre conosciuto e amato come Amedeo, ed era mio nonno.
Riccardo Siragusa
Fin qui il fortunato nipote di tale nonno. Ma che invidia anche
per quei ragazzi di 11-13 anni che tra i banchi di scuola possono ascoltare un insegnante
di storia che attraverso una disciplina curriculare li educa al gusto per lo
studio, li orienta al senso della vita, li mette a contatto con la polvere, con
il dolore, con la compassione, con la pietà, con il coraggio, con la Provvidenza.
Uno sconosciuto che dall’alto avrà strizzato l’occhio al pilota
dell’aereo, un uomo anche lui, che – come spesso accade in guerra – avrà spesso
pregato Iddio che l’adempimento del suo dovere di buon soldato avesse il minor
costo possibile, in termini di vite, di sofferenze. E Dio, come sempre, sistema
le cose nel modo migliore, rispettando la nostra libertà, e quella di soldati
che non hanno dimenticato di essere prima di tutto uomini.
Come scrive il professore Siragusa, «nonostante la guerra l’uomo
non ha perso la propria umanità».
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